‘U prisebiu d’u zi’ ‘Ntonu

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Una fiaba di cartapesta

(di Antonio Furgiuele)

’U zì Ntonu aveva una passione smisurata per il presepe, ed ogni anno, a metà novembre, quando mio padre cominciava a portare a casa le prime beccacce, sul suo fornello alimentato ad alcool denaturato (’a spiritèra), cominciava a bollire l’acqua che avrebbe accolto la farina per produrre l’omonima colla che oggi, i puristi della lingua nostrana, chiamerebbero biologica.

Che fosse tale, noi, fanciulli un po’ smaliziati, lo sapevamo già senza scomodare il vocabolario, poiché, nel rimestarla con il cucchiaio di legno per non farla attaccare sul fondo della pentola, ne apprezzavamo la bontà affondando in essa l’indice per poi, con nobile gesto, portarlo in bocca ed apprezzarne il gusto.

Io ero mobilitato anzitempo in qualche cantiere edìle alla ricerca dei sacchi di carta che avevano contenuto il cemento, i quali, tagliati in piccole strisce rettangolari, avrebbero costituito un solido rivestimento per la carta dei giornali, che a sua volta, opportunamente modellata, riproponeva l’orografia del terreno.presepe_c06

Il rito presepiale aveva inizio assemblando delle assi di legno inchiodate fra di loro, in modo tale da costituire l’intelaiatura di quel piccolo mondo agropastorale che tanto doveva assomigliare alla nostra terra di Calabria.

Fra una martellata e l’altra, ciò che attirava la mia curiosità di fanciullo erano alcuni segni di colore nero, grossolanamente dipinti sulle assi di legno, dei quali non riuscivo a percepire il significato. Chiestolo a mio zio, mi fu spiegato che quegli incomprensibili segni altro non erano che alcune lettere dell’alfabeto cirillico, utilizzato, quest’ultimo, per la scrittura, in alcuni paesi lontani e freddi. Ma niente di più.

Con il passare degli anni, trovandomi dinanzi ad alcune casse di baccalà provenienti da quella che fu l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, capii perfettamente la provenienza di quelle grezze assi, che in fondo, a pensarci bene, non avevano perso l’odore – o il tanfo – di quel meraviglioso pesce disseccato che ancora oggi delizia il palato di tutti.

Ultimata l’intelaiatura, questa veniva poggiata su due sedie poste ai suoi lati e con la carta dei quotidiani si cercava di riprodurre monti e vallate, proprio come si fa oggi, utilizzando il più avveniristico poliuretano espanso.

Era quello il momento più creativo, in cui la fantasia e la mano dell’artigiano cercavano di riprodurre al meglio quanto già visto in natura o immaginato che vi fosse.

Ed in quella occasione veniva proiettato sul presepe tutto il suo essere: conscio ed inconscio.

La grotta, poi, che ’u zì Ntonu poneva sempre alla destra dell’osservatore e mai al centro, veniva realizzata utilizzando la corteccia di sughero ed incastonata come una pietra preziosa in quel mondo di cellulosa.

Le sue mani lunghe ed affusolate, tipiche delle persone che usano quotidianamente forbici e rasoi, ingiallite sull’indice per qualche sigaretta di troppo, rendevano docile la carta a cui la colla di farina, distribuita con prodigalità, conferiva, una volta asciugata, stabilità e durezza, assecondando l’idea prima.

presepe_c10Quando, quest’ultima non era assistita da mano felice, per colpa dei materiali impiegati o del creatore medesimo, si andava avanti per giorni, con il rischio di surriscaldare l’ansimante spiritièra, finché l’ispirazione non aveva successo.

Ad asciugatura avvenuta, seguiva l’applicazione di uno strato di carta proveniente dai sacchi dell’Italcementi ed infine, quando tutto era consolidato si stendeva la carta roccia dai tipici colori mimetici verde e marrone.

Ma non era ancora finita, mancavano, difatti, le passerelle in legno per l’attraversamento dei dirupi, i recinti degli stazzi a protezione degli agnelli lattanti ed i sassolini bianchi e grigi raccolti sulla spiaggia, da distribuire lungo gli argini scoscesi del fiume, dipinto sulla carta.

Lavoravamo un paio di ore al pomeriggio, giacché mio zio alle sedici in punto aveva l’impegno di aprire la sua bottega di barbiere (’a varverìa) e, sporadicamente la sera, tenuto conto che anch’egli, con altri suoi coetanei, partecipava alla realizzazione del grandioso presepe che trovava alloggio nella chiesa di San Bernardino da Siena.

La vigilia dell’Immacolata Concezione si avvicinava a grandi passi, e con essa si accompagnava il primo vero freddo proveniente dai balcani. I bracieri di rame o, per i meno fortunati, di ferro, se non addirittura le bacinelle smaltate non più idonee all’uso mattutino, avevano fatto la loro comparsa lungo la via e le braci, non completamente  maturate dal fuoco, alimentato a sua volta dall’alito di generosi ventagli di castagno agitati da mani esperte, sollevavano nell’aria decembrina una miriade di scintille (i carioli) che come piccoli firmamenti terrestri, rischiaravano quegli angusti spazi domestici.

Così, dopo aver posto il muschio a guisa di tappeto erboso sui pianori, fra le case, e la mortella, con ancora le bacche attaccate, sui monti imbiancati di neve fatta con l’ovatta, si ponevano i pastori ed un arabeggiante telo che fungeva da sfondo, in netto contrasto con l’ambiente appenninico rappresentato dal presepe, mettendo in risalto una grande stella cometa dagli argentei riflessi.

Negli angoli più in vista, le multicolori casette di cartone riproponevano quanto di più vivo e pieno di calore possa rappresentare l’architettura popolare, con i suoi ballatoi, le aie, ed i portici a volta.

Quando ’u zì Ntonu apriva lo scatolo che per un intero anno aveva protetto i pastori di terracotta dipinti a mano, mi voleva ancora più vicino a sé e cingendomi con il braccio lungo la vita, di ogni statuina che tratteneva fra le mani, prima di porla nel suo spazio di pertinenza, mi raccontava la sua storia, una sorta di biografia che tendeva a rendere vive e piene di calore umano quelle terrecotte colorate o, forse, l’umanizzazione di esse altro non era che un modo soffice per passarmi il testimone, rendendomi il più possibile partecipe di quei momenti, giacché predisporsi a quella nascita salvifica lo rendeva più preoccupato ed umanamente fragile.

La sera del sette dicembre, come tradizione vuole, il presepe era pronto. Dinanzi alla grotta, poggiato su di un piattino, veniva posto un bicchiere pieno per tre quarti d’acqua e per il rimanente quarto di olio di oliva, con lo stoppìno di bambàgia che faceva capolino da quel liquido votivo, color oro, sorretto da un sugherino perforato al centro, in cui andava ad incastonarsi.

Era questa la lampada ad olio che fino all’Epifania avrebbe rischiarato con la sua flebile luce quel meraviglioso paesaggio e, per apprezzarne di più il fascino, io e mio fratello spegnevamo l’unica lampadina della stanza, creando un’atmosfera da sogno, dove il tempo e lo spazio sembrava non avessero più alcuna influenza sugli uomini.

Facevamo parte anche noi di quel mondo, di quella fiaba senza tempo … Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, … cantavamo in attesa del grande evento … e vieni in una grotta, al freddo e al gelo, … mentre ’u zì Ntonu, commosso, ci guardava compiaciuto.

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