(di Antonio Furgiuele)
Corrispondenze dei soldati amanteani nella Campagna di Russia 1941–1943
“In Russia si dice che sotto ciascun girasole ci sia il corpo di un soldato italiano”
Quando il 22 giugno 1941 la Germania sferrò la sua offensiva nei confronti della Russia, i principali obiettivi strategici del Comando Supremo dell’Esercito tedesco (OberKommando des Heeres) erano quelli di prendere possesso del Bacino minerario del Donez, il Caucaso con i suoi giacimenti petroliferi, Leningrado e Kronstadt per privare delle sue basi principali la flotta russa del Baltico e, quindi, Mosca.
Durante questa prima fase (Campagna dell’estate – autunno 1941), nel mese di agosto, al comando del generale Giovanni Messe, il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), giunge in Russia, entrando subito in azione, intervenendo a Petrikova, partecipando alla conquista del Bacino del Donez ed occupando i distretti industriali di Rykovo e di Gorlovka.
Facevano parte di questo Corpo, inquadrato nell’11ª Armata germanica, la 3ª Divisione Celere Principe Amedeo Duca d’Aosta, le Divisioni autotrasportabili Pasubio e Torino, e la Legione CC. NN. Tagliamento (quest’ultima, inserita per dare una connotazione ideologica alla guerra), per un totale di 62.000 uomini. Nel corso della controffensiva russa (Campagna dell’estate – autunno 1942), al Corpo di Spedizione Italiano in Russia, furono aggiunte quattro Divisioni di fanteria (Sforzesca, Ravenna, Cosseria e Vicenza) e tre Divisioni alpine (Tridentina, Julia e Cuneense), modificando il rapporto di forza da Corpo d’Armata a quello di Armata (l’8ª), al comando del generale Italo Gariboldi, per un totale di circa 229.005 uomini (ARMIR – Armata italiana in Russia).
I militari italiani entrarono subito nel vivo della guerra dando un notevole contributo per la conquista del bacino carbonifero del Mius-Krasnyj Lunch, combattendo vittoriosamente a Serafimovic e partecipando con tutte le Divisioni alla prima battaglia difensiva del Don, combattuta dal 20 agosto al 1° settembre.
Dal 19 novembre 1942 e fino alla fine del mese di marzo del 1943, i russi, mettendo in atto il piano denominato “Operazione Piccolo Saturno”, passarono al contrattacco, annientando sei armate avversarie, tra le quali quella italiana schierata a difesa del medio Don che, dopo strenua resistenza, difronte alle preponderanti forze nemiche, ricevette l’ordine di ritirarsi.
Il Corpo d’Armata Alpino, invece, posizionato più a settentrione, si ritrovò coinvolto nell’accerchiamento messo in atto dalla manovra russa e rimarrà isolato. Inizia così la fase di ripiegamento che durerà dieci durissimi giorni, in cui la Julia verrà praticamente annientata, la Cuneense, attaccata e sopraffatta, sarà costretta ad arrendersi nei pressi di Valujki, mentre la Tridentina, unica grande unità ancora operativa, scriverà col sangue le sue pagine più gloriose, rompendo definitivamente l’accerchiamento a Nikolajevka, il 26 gennaio, trascinandosi fuori dalla sacca.
Il 31 gennaio, ciò che rimaneva del Corpo d’Armata Alpino raggiunse Scebekino, dove, possiamo dire, si concluse operativamente la Campagna di Russia.
Per condurre la nostra Armata in Russia furono necessarie settecento tradotte, per riportare i superstiti in patria, nella primavera del 1943, ne bastarono diciassette.
“Macchinista, macchinista del vapore
dà pressione agli stantuffi
dell’Italia siamo stufie
d in Russia vogliamo andar…”
Tutto era bianco e la neve continuava a cadere copiosa, coprendo ogni angolo del paesaggio, rendendolo perfettamente uniforme, pur nella sua vastità.
I cannoni avevano smesso di tuonare ed il rumore dei cingoli dei carri armati si perdeva nelle lande gelate, ovattato dal vento siberiano che sibilava forte.
L’aria fu pervasa dal silenzio che annuncia la fine, ed una pace senza pietà scese sugli uomini; la tragedia degli sconfitti ora era del tutto evidente e si rivelava in tutta la sua terrena drammaticità.
Tutto era di un bianco accecante, un sudario immenso copriva i corpi dei soldati uccisi, sorpresi dalla morsa del ghiaccio nel loro ultimo spasimo, mentre il vento, soffiando impetuoso, sollevava turbini di neve gelata.
Giacinto, Gabriele, Ernesto, Giovanni… chissà! Forse anche loro erano rimasti sepolti sotto quella coltre bianca che, premurosa, li proteggeva maternamente da ulteriori oltraggi, mentre il mare e le colline di Amantea erano troppo lontani e non potevano riscaldare più i loro giovani cuori. Intorno c’era solo l’inverno russo e tanto freddo da gelare anche l’anima.
Dopo l’iniziale ripiegamento, i sopravvissuti cominciarono a formare una lunga colonna di marcia, sulla via della ritirata, sapendo di dover soffrire ancora al limite dell’umana sopportazione, e di affrontare altri scontri armati con il nemico per rompere l’accerchiamento.
Sempre avanti, senza sosta, all’addiaccio, in condizioni ambientali proibitive, marciando anche di notte, con il rischio del congelamento sempre in agguato. Uno scontro dopo l’altro, una lotta impari che assottigliava sempre di più le fila dei soldati italiani. Non più uomini, erano quelli che andavano all’assalto, ma parvenza di coloro che un tempo, con ostentata fierezza, marciavano sull’andatura del Passo Romano. Ora solo la pietà provata per gli inermi, per i feriti, per i corpi devastati dalla violenza della guerra, restituiva loro quella parte di dignità che appartiene agli uomini, in quanto tali.
Ma questa è la storia dei vivi e dei tanti altri sopravvissuti che ci racconteranno poi di quella immane tragedia, dell’insensatezza degli uomini che esplode rabbiosa quando la coscienza si assopisce.
Sulla Campagna di Russia è stato scritto più di tutte le altre campagne militari messe assieme, dai primi scontri, avvenuti nell’agosto del 1941, alla seconda battaglia del Don ed alla ritirata.
Testimoni di quei drammatici giorni furono anche alcuni ufficiali di complemento, graduati e soldati semplici di Amantea (CS) che, per uno strano gioco del destino si trovarono, inconsapevolmente, a vivere da protagonisti, una delle più grandi tragedie militari di tutti i tempi. L’aver conservato i loro scritti, espressione sincera del loro stato d’animo, ancor più illuminante dei resoconti giornalistici, costituisce memoria che di rado si trova nei documenti ufficiali.
Di essi, della loro odissea, i comandi militari non sono stati in grado di fornire notizie certe ed ancora oggi sono ritenuti dispersi. Condizione, questa, che nel corso degli anni ha alimentato nel cuore dei congiunti vane speranze di illusori ritorni. Noi, attraverso le loro cartoline azzurrognole, in franchigia militare, a volte anche affrancate, per garantire, con l’utilizzo dell’aereo, una rapida consegna, abbiamo inteso fotografare alcuni momenti di “normalità” vissuti nelle retrovie o sulla linea del fronte, nei ricoveri, costruiti sotto terra, per lenire il freddo.
Li vogliamo ricordare attraverso i loro scritti, le loro battute criptiche, le loro estemporaneità, l’ingenuo credere nella vittoria finale, frutto di un ventennale indottrinamento.
Quello che proponiamo al lettore, sono attimi di vita che appartengono al quotidiano, riportati sulle cartoline, quasi con spensieratezza, se non con incoscienza, nonostante l’orrore della guerra, dove trova spazio anche una conviviale ironia ed il ricordo ancora vivo del periodo di licenza trascorso nell’ambito familiare.
Tutto lascia spazio alla speranza di un imminente ritorno, e ad esso si brinda con una borraccia piena di vino, eroi festanti con ancora negli occhi lo splendore dei girasoli, che in una calda estate del ’42 li avevano accolti nelle vaste pianure ucraine, metafora della loro bella gioventù.
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