Omaggio al poeta Poeta
FRANCO BAZZARELLI
(Amantea 1948 – 2018)
“Franco Bazzarelli è stato un poeta delicato e sensibile, ingenuo, umile fino all’inverosimile, e di una umanità sconvolgente che lo rende unico ai nostri occhi.”
….. Quando muore un poeta siamo tutti un po’ più tristi.
Moravia diceva che in un secolo ne nascono tre o quattro, per cui la loro perdita ci diminuisce e ci addolora.
Essi sono delle creature fragili che riscoprono quotidianamente la solitudine come valore positivo. Sono delle sentinelle che avvertono, primi fra tutti, i mali della società in cui viviamo e con il loro dire, ne segnalano il pericolo.
Franco Bazzarelli è stato un poeta delicato e sensibile, ingenuo, umile fino all’inverosimile, e di una umanità sconvolgente che lo rende unico ai nostri occhi. Probabilmente non si è mai calato appieno nelle problematiche sociali del tempo in cui ha vissuto che è anche il nostro tempo, ma è stato in grado egualmente di esplorare l’animo umano nel suo quotidiano divenire “fatto di piccole, ma sostanziali cose”.
Aveva il dono di non dimenticare queste ultime, per non perdere di vista quelle più importanti.
Lo vidi per la prima volta nel corso degli esami per il conseguimento della licenza di scuola media in quel di San Bernardino, che allora ospitava le classi della “Goffredo Mameli”.
Io ero un giovane studente che indagava sulle modalità con cui si sarebbero svolti gli esami, dovendo sostenerli, lui un riservato giovane di dieci anni più grande di me che insieme al maestro Francesco Curcio si accingeva, timoroso, a sottoporsi alla prova di esame, da privatista, sotto lo sguardo benevolo dell’allora preside Mimì Alecce. Rispose a tutte le domande che gli furono rivolte e, con un accentuato sbattere di ciglia che lasciava trasparire una malcelata tensione nervosa, riuscì a passare indenne anche la prova di matematica, che vedeva in cattedra una severissima docente.
In seguito ebbi modo di incontrarlo più volte insieme a mio fratello durante l’attività concertistica della banda musicale cittadina, intitolata al compianto maestro Mario Aloe, di cui entrambi facevano parte.
Franco suonava alla perfezione sia il sax tenore che quello baritono, e il suo spiccato senso del ritmo, unito alla conoscenza della musica lo rendevano uno degli esecutori più apprezzati dell’intero corpo bandistico.
Provavo per lui ammirazione e stima, ma nonostante tutto fra di noi non ci fu mai uno scambio verbale, se non qualche convenevole.
Il fatidico incontro, galeotto il volume di Piero Chiara, “Vita di Gabriele D’annunzio”, una pubblicazione economica edita dal “Club degli Editori”, avvenne in una soleggiata mattina di primavera del 1979.
In quel periodo Franco, per sbarcare il lunario, aiutava l’amico Domenico Esposito, enigmatico postino dalla salute malferma, che aveva l’incarico di consegnare la corrispondenza anche nell’area dove abitavo. Conoscendoci, più volte gli capitava di sostare nel negozio di mia madre, in piazza Commercio n. 5, che fa angolo con via Calavecchia, per riprendere fiato qualche minuto, senza mai proferire parola.
Nel corso delle sue consegne, Franco notò il mio interesse per la lettura e, appoggiandosi al bancone che ci divideva, balbettando, com’era sua consuetudine quando era emozionato, mi chiese cosa stessi leggendo e se mi piaceva la poesia. Risposi che non solo mi piaceva, ma che ogni tanto riuscivo a scriverne qualcuna. Quelle parole vinsero le sue ultime resistenze emotive e con il candore di un bimbo mi confidò a bassa voce che anche lui ne aveva scritte alcune.
Ci congedammo con la promessa che ce le saremmo scambiate e così fu.
Da quel momento il nostro rapporto umano e culturale non si è mai interrotto fino alla sua prematura morte. Un rapporto di fraterna amicizia durato circa trentanove anni, senza mai uno screzio o una parola di troppo.
Aspettava ansioso che io aprissi il negozio, sin dalle otto di mattina, e andava via alle dodici e trenta per il pranzo. Si ripresentava alle quattro del pomeriggio sotto casa e concludevamo la nostra giornata alle otto di sera con la vista del mare di cui, entrambi, aspiranti poeti, eravamo innamorati.
Il mare ci portava lontano, ci conduceva in un mondo sconosciuto da cui trarre ispirazione per i nostri scritti che, puntualmente, dapprincipio, non trovavano consenso in quei concorsi di poesia che a buon motivo un comune amico definiva da “sottobosco letterario”.
Sempre e comunque ci accompagnava la sua “compagna a due ruote”, così avevo ribattezzato la sua bicicletta che non inforcava mai, tant’è che una sera, prendendolo amabilmente in giro per questo suo fare, gli dissi che avrebbe dovuto dedicarle una poesia, e così tra il serio e il faceto, ma lui ci credeva, la cosa si avverò.
Aveva tanta voglia di conoscere gli autori e le opere della nostra bella lingua, così lo spronai a non disperdere in mille rivoli la sua sete di conoscenza, cosicché da una lettura disordinata si passò piano, piano, a uno studio organico della letteratura italiana. Insieme rivisitammo tanti autori, anche locali, e tante correnti letterarie. Il suo continuo chiedere, a volte assillante, metteva a nudo una passione non comune per il sapere, che a volte sembrava lo torturasse.
Con il passare del tempo quel piccolo negozio di vimini e terrecotte, dove d’inverno non si vendeva niente, divenne un salotto letterario frequentato dalle più belle intelligenze di Amantea:l’antropologo Enzo Fera, i professori Vincenzo Segreti, Franco Volpe, Roberto e Rodolfo Musì, Salvatore Sciandra, Pino Del Pizzo, il maestro Cipriano Martire, i poeti Giacomino Launi e Vincenzo Franco Cario, quest’ultimo veniva da Falerna con la sua Vespa anche con la pioggia, nonché i pittori Mario Bruno e Rosario Furgiuele, gli amici Fortunato Marinari e Gregorio Carratelli.
Il comune amore per la musica lirica consolidò e mise il sigillo al nostro rapporto di amicizia e ci fece fare delle esperienze uniche.
Ogni domenica, dopo la consueta passeggiata ci ritrovavamo a casa sua ad ascoltare, in religioso silenzio, un intero melodramma, con l’ausilio di musicassette di cui Franco era fornito e del libretto d’opera, quest’ultimo, oggetto di studio e commento nel corso della settimana che precedeva l’ascolto.
Quando con il passare del tempo divenimmo più esigenti e il fruscio che accompagnava l’ascolto delle musicassette non ci faceva godere più della purezza del bel canto e le nostre orecchie addestrate soffrivano, ci facevamo ospitare dall’amico Mariano Cozza, apprezzato melomane che possedeva una interessante collezione di musica operistica incisa su dischi in vinile a 33 giri, o da Armando Gagliardi, anch’esso amante dell’opera lirica, che armeggiando nel suo negozio di elettrodomestici con i primi CD, ci fece sentire per la prima volta la voce di Pavarotti memorizzata in forma digitale.
Cominciammo a maturare il desiderio di seguire la stagione lirica del teatro “Alfonso Rendano” di Cosenza e, non senza sacrificio ci riuscimmo, grazie agli amici citati, ad Attilio Bruni e al maestro Cipriano Martire che più volte ci accompagnò con la sua Cinquecento, anche quando la strada era coperta di neve.
In più anni vedemmo tante rappresentazioni con alla ribalta protagonisti di primissimo piano come il baritono Gian Giacomo Guelfi, il maturo soprano Anna Moffo e la brillante Katia Ricciarelli nelle vesti di Mimì ne La bohème di Giacomo Puccini.
Per poter vedere quest’ultima, partimmo alla volta di Cosenza con la corriera delle sei e trenta e ottenemmo i biglietti dopo sei interminabili ore di fila, davanti al botteghino del teatro. Fu grazie a Franchino Chiappetta che non vedendoci arrivare ritardò ad arte di qualche minuto la partenza della sua corriera, se potemmo tornare a casa senza ulteriori disagi.
In quei meravigliosi anni, come già accennato, fummo contagiati dalla febbre dei concorsi letterari e cominciammo a inviare le nostre poesie per tutto lo “stivale”. Quando cominciarono ad arrivarci le comunicazioni che ci annunciavano il conferimento di un premio, Franco arrivava alla “Taverna” tutto trafelato, questa volta in sella alla sua sgangherata bicicletta e già all’altezza della cartoleria Segreti, staccando una mano dal manubrio, sventolava per aria la preziosa missiva, chiamandomi a squarciagola.
Andavamo a ritirare i premi con il treno o con mezzi di fortuna e il frequentare quegli ambienti letterari o pseudo tali, non sempre seri e qualificati, ci diede, comunque, la possibilità di conoscere tanta bella gente con cui, soprattutto Franco, intraprendeva una fitta corrispondenza.
Bello fu il viaggio in treno fino a Rosarno insieme al poeta dialettale roglianese, Peppino Arabia, che in seguito non mancò mai di venirci a trovare ogni qualvolta scendeva a Longobardi, ospite di Emilio Frangella, indimenticato direttore di Calabria Letteraria per oltre mezzo secolo.
In quella occasione erano presenti alla cerimonia di premiazione e ci strinsero la mano, lo scrittore e giornalista Antonio Altomonte, vincitore, qualche anno prima del Premio Viareggio, con cui ci intrattenemmo a parlare qualche minuto, l’allora ministro per il Commercio con l’estero Nicola Capria e il padre di Giuseppe Valarioti, quest’ultimo, dirigente rosarnese del PCI e docente di storia e filosofia nei licei, ucciso dalla ’ndrangheta a Nicotera 1’11 giugno del 1980.
Interessante fu la nostra presenza ai Premi Nazionali di Poesia di Chiaravalle Centrale, dove avemmo modo di conoscere lo storico e critico d’arte Cesare Brandi, elegante fondista del Corriere della Sera, e di stringere amicizia con Sharo Gambino, scrittore e giornalista calabrese che faceva parte della giuria.
Altra “gita fuori porta” con colazione al sacco la facemmo in treno per raggiungere San Nicola Arcella. Dalla terrazza dell’hotel dove eravamo ospiti si vedeva un mare e una spiaggia meravigliosa che invitava ad altri pensieri, per cui, dopo aver ritirato i premi, consegnatici dal parlamentare europeo, on.le Dario Antoniozzi, visto che eravamo nel periodo estivo, vinte le ultime resistenze di Franco, ci immergemmo nelle acque prospicienti lo “scoglio dello Scorzone”, pur non avendo né il costume da bagno, né l’asciugamano… praticamente in mutande.
Nel 1980 scrissi una breve recensione sul suo modo di fare poesia e la pubblicai sulla rubrica “Scrittori e poeti contemporanei” del Pungolo Verde, mensile internazionale di pensiero e critica che si stampava a Campobasso, di cui per un lustro fui redattore- segretario per la provincia di Cosenza.
Raggiante di felicità non credeva ai suoi occhi e me ne fu sempre grato, anche quando altri, più titolati di me, si occuparono di lui. Con voce sommessa mi ripeteva spesso che io, oltre alle parole, ci avevo messo il cuore.
Dopo tanti concorsi pubblici per entrare nel mondo del lavoro, finalmente nel febbraio del 1983 arrivò il sospirato posto fisso e cominciai a viaggiare alla volta di Catanzaro, mentre Franco alternava qualche lavoretto al più grande impegno che era quello di letturista ENEL.
Le cose lentamente cambiarono e il tempo a disposizione non era più quello di prima, ma ci restava ancora una fetta di pomeriggio e cercammo di valorizzarlo al massimo. Le nostre letture continuarono egualmente, così come le nostre passeggiate e le appassionate discussioni sopra un suo verso che non suonava bene o per una virgola ritenuta fuori posto. Facevamo tutto questo e altro, ma qualcosa dentro di noi lasciava presagire la fine imminente di una meravigliosa stagione della nostra vita. Difatti, qualche anno dopo mi sposai e andai a vivere a Catanzaro e da quel momento l’attesa del sabato pomeriggio e della domenica divenne spasmodica.
La mia presenza ad Amantea ci consentiva, seppur non a tempo pieno di stare insieme, di rientrare per una breve parentesi nel nostro mondo poetico in cui amavamo riconoscerci. Ricordo i fogli del calendario tagliati in quattro parti su cui scriveva le sue poesie. Me le sottoponeva appena sceso dall’auto, rosso in viso per l’emozione, e aspettava in silenzio che esprimessi un giudizio. Mi riteneva un giudice severo, ma qualche volta forse, per non deluderlo, non lo sono stato.
Il telefono divenne il nostro inseparabile compagno e il fidato custode di lunghe, interminabili chiacchierate che al centro avevano sempre i suoi versi, di cui non riusciva a vivere senza. Più che un dono della natura, quello di scrivere poesie per lui fu quasi una dannazione.
Quando mi rivelò i primi sintomi del suo male, non ancora diagnosticato, osservando il suo corpo smagrito che si perdeva nei leggeri vestimenti estivi, compresi che non aveva capito a cosa stesse andando incontro e nelle risposte lo assecondai con inusitata dolcezza. Di lì a poco iniziò il suo calvario fisico che non gli risparmiò nulla. Una battaglia impari combattuta con dignità fino alla fine.
L’ultimo incontro avvenne nel corso della fiera di Ognissanti, quando con l’amico Cenzino Segreti, facendoci forza, decidemmo di andare a fargli visita.
La sua figura emaciata, vicino al viso dolente della madre anziana mi apparve di colpo come una nuova “michelangiolesca pietà”, scolpita non nel marmo, ma nella carne e nell’anima degli uomini.
Lo invitammo a leggere per affrancarsi dal male che lo affliggeva, ma neanche la poesia riusciva più a sublimarlo, a dargli risposte. Si era sottratto all’insensatezza del mondo, alla sua paranoia, ed aveva iniziato un nuovo viaggio che per noi si concluse con le parole che non hanno ritorno!, come recita il finale di una delle sue più belle poesie:È il tempo che brucia
È il tempo che brucia È il tempo che brucia ogni attimo della nostra vita.
Sono scuse inventate le parole che non hanno ritorno. Franco Bazzarelli, da La notte possiede occhi di lanterna |
Antonio Furgiuele
Dalla relazione tenuta da Antonio Furgiule – Amantea, 22 marzo 2018 — Sala mediateca della chiesa-convento di San Bernardino da Siena |
Franco Bazzarelli
“Il poeta amanteano, premiato in tantissimi concorsi letterari nazionali, non c’è più. Ad annunciare la sua dipartita, avvenuta nella mattina di lunedì 15 gennaio, è Amanteani nel Mondo di Pino Del Pizzo:
“È venuto a mancare Franco Bazzarelli, autore autodidatta di meravigliose poesie – scrive Del Pizzo -, nelle quali traspariva la grande sensibilità d’animo legata, quasi sempre, ad un messaggio evangelico e ad una disincantata visione della realtà purificata e sublimata nei suoi versi. Franco non c’è più, ma il suo ricordo continuerà a vivere con le sue poesie, patrimonio della sua anima e della nostra comunità”.
(Bruno Pino- Aiello Calabro e dintorni)
Autore autodidatta, a trenta anni scoprì l’amore per la poesia e la sua grande sensibilità, con inclinazioni verso il messaggio evangelico, è stata presente in tutte le sue opere.
Ha partecipato a vari concorsi letterari riscuotendo sempre vivi consensi ed apprezzamenti.
In Australia con la lirica “Chitarra muta”, una delle sue più originali creazioni, ha vinto il concorso letterario “A.L.I.A.S.”
Per i suoi meriti artistici è diventato Socio Benemerito della Accademia Nazionale “Marconi”.
Molto interessanti anche i suoi racconti, fra i quali ci piace ricordare “A mia nonna” e “Un gioco vissuto, dimenticato e ritrovato”.
La sua poesia si pone come una linea etica. scava e lacera la carne, sbalza e taglia il foglio, non si configura nello spazio del rigo, apre le porte allo sguardo del lettore che scopre gli inganni, dice della pena e della sofferenza, del tempo che sfibra l’anima e contemporaneamente apre il portone gotico del sogno e mostra l’orizzonte della possibile speranza.
Non lascia spazio ad equivoci o fraintendimenti, e simile alla stella solitaria che si staglia nel cielo e ci immette subito nella polvere del giorno, nella profondità del silenzio di una notte stellata, nel corpo del sogno e nel fiume che racconta la vita.
Il suo verso elegante, essenziale nella sua nudità è uno spazio di ritrovata libertà, lama del pensiero che vede il canto della pioggia/ sereno martirio in terra di dolore nell’atrio del tempo.
Una straordinaria sensibilità, fatta di luce e di ombra, dove i significati e le metafore si fondono e si confondono di continuo con la parola scritta che danza nel cerchio della vita.
“L’amanteano Franco Bazzarelli, dice di lui lo storico e critico Vincenzo Segreti, è il tipico poeta autodidatta dalla personalità schiva e riservata, dotato di umbratile sensibilità ed animato da un inesauribile amore per la letteratura”. Un poeta “in grado di rappresentare, con suggestiva creatività, nobili sentimenti, forti passioni, intensa religiosità”.
Nel 2004 pubblica “La Notte possiede occhi di lanterna”, edito dalla Comunità Montana Medio Tirreno e Pollino.
Le sue liriche sono state pubblicate in riviste specializzate, e recensite da quotidiani nazionali ed esteri, come “Calabria Letteraria”; “Nuovo Diogene”, o il quotidiano “America Oggi”, distribuito negli States assieme a “La Repubblica”.
di Pino Del Pizzo
caro pino,complimenti per la poesia Finche’ avro’ il coraggio,molto sentita,piena di umilta; e coraggio ,grazie dei tuoi versi abbracci rocco veltri