L’evento fieristico, se escludiamo le grandi fiere francesi (Champagne, Lione, ecc.), non ha mai goduto di particolare considerazione da parte degli storici.
Nel merito, l’istituto della fiera in Italia, già diffuso nel IX e nel X secolo lungo la costa adriatica fino alla Puglia, fu considerato marginale o non fu considerato affatto, nonostante la presenza di mercanti stranieri e, quindi, scarsi sono i dati da poter elaborare, nell’ambito dei movimenti economici dell’Italia meridionale, sia sotto l’aspetto economico che sotto quello giuridico.
A ciò si deve aggiungere la strenua resistenza delle corporazioni mercantili locali che in difesa delle loro prerogative commerciali, fecero di tutto per impedire la nascita ed il diffondersi delle fiere.
Nel Meridione, in cui si poteva utilizzare solo la via marittima, peraltro molto rischiosa a causa del fenomeno della pirateria, poiché insufficienti erano le comunicazioni interne, sarà l’oppressione feudale e la sua atavica arretratezza economica la causa principale del mancato sviluppo fieristico e bisognerà attendere ancora, prima che esso diventi un’area mercantile qualificata che vedrà la presenza di commercianti provenienti dalle altre regioni d’Italia ed anche stranieri, attenti soprattutto all’acquisto delle produzioni locali, come le granaglie, la lana e la seta (si pensi ai tessuti di raso, ai damaschi ed ai velluti di Catanzaro).
Ciò è dovuto principalmente alla presenza, nel Meridione, degli Aragonesi, che con Alfonso il Magnanimo perseguirono – o cercarono di perseguire – quella politica favorevole agli scambi commerciali, già iniziata con gli Angioini, agevolando il fenomeno fieristico con la concessione di esenzioni fiscali e privilegi, ad appannaggio, questi, delle ricche ed influenti comunità ebraiche, nelle cui mani era accentrata tutta l’attività commerciale del Regno.
“Il Magnanimo”, scrive Alberto Grohmann, “concesse numerose fiere e mercati a località della Calabria; l’intento dovè essere duplice: creare un’unità economica all’interno del Regno, che sarebbe stato il substrato fondamentale per un’unità politica, ed assicurarsi la fedeltà di quei centri che rivestivano importanza strategica in quel teatro di continue lotte tra il potere centrale ed i baroni che fu la Calabria”. [1]
Della fiera di Amantea si trova origine in un privilegio del 31 gennaio 1529 di Filiberto Chalon, principe d’Orange, vicere di Napoli, regnante lo stesso Carlo V, con il quale al Mastrogiurato venivano imposte alcune regole circa la conduzione della fiera, in modo particolare per quanto riguarda l’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia. [2]
La data di svolgimento dell’evento fieristico con il tempo è andata sempre mutando, così come lo spazio in cui esso veniva fisicamente collocato, per cui, mentre oggi ha luogo dal 27 ottobre al 2 novembre lungo le arterie principali della città, sotto la denominazione di Fiera dei Morti o di Ognissanti, nel 1729 iniziava il 27 giugno ed aveva la durata di dieci giorni, per essere poi spostata dall’1 al 10 ottobre nel 1755.
Dal luogo originario detto del Fossato, adiacente alle mura difensive della città, nel 1821, per le mutate condizioni urbanistiche, passò al Largo dei Cappuccini, avendo una durata di otto giorni, dalla seconda alla terza domenica di ottobre.
Si tratta di una fiera commerciale alla quale partecipano numerosi operatori del settore, provenienti da tutta la Calabria e da altre aree del Mezzogiorno, che espongono e vendono le merci più disparate: prodotti agroalimentari, realizzazioni dell’artigianato calabrese, italiano e straniero, dolciumi, biancheria, casalinghi, abbigliamento, pelletteria, calzature, ceramiche, bigiotteria, giocattoli.
Il tutto in un contesto che rappresenta un ponte ideale fra il modello tradizionale del rapporto fra il venditore e l’acquirente ed i freddi centri commerciali che si ispirano al modello nordamericano.
Nel primo, si tende a far rivivere uno scorcio del passato, nel secondo, perfetto ed efficiente, l’aspetto umano è del tutto trascurato, passando in secondo piano.
Ma al di là dello scambio commerciale, la fiera è soprattutto una festa che appartiene alla memoria storica di una intera comunità: desiderata ed attesa per un intero anno, momento di partecipazione, occasione che veicola una funzione di socialità, in cui si riscopre l’atmosfera della partecipazione.
“Il tempo della fiera”, scrive Enzo Fera, “non appartiene solo all’ambito economico e commerciale, ma è anche tempo festivo. Il tempo dell’uniformità e della ripetitività quotidiana, scandito dai consueti ritmi, viene dissolto e ci si apre ad una condizione fuori dalla storia, nella quale si manifesta una pienezza di vita non repressa, in cui la coscienza si dilata e coglie i significati più autentici della vita”. [3]
Antonio Furgiuele
[1] A. Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli in età aragonese, Napoli, 1969, pag. 187;
[2] in proposito sono state consultate le seguenti opere: V. Segreti, La fiera di Amantea, in Calabria Letteraria, anno XLII, n. 10-11-12, ottobre, novembre, dicembre, 1994, pagg. 59-62; G. Turchi, Storia di Amantea (dalle origini alla fine del secolo XIX), Cosenza, 2002, pag.156;
[3] E. Fera, Amantea la terra gli uomini i saperi, Cosenza, 2000, pag. 151