L’aroma del caffè che saliva dal piano sottostante solleticava appena le narici, facendomi dischiudere gli occhi che repentinamente cercavano riparo sotto le coperte per difendermi dalla luce che, a spicchi, penetrava nella stanza, attraverso gli scuri appena aperti.
Un altro odore, meno accattivante del primo, pungente e fastidioso, giunse a distogliermi da quel torpore, facendomi saltare fuori dal letto.
La tromba in si bemolle, color argento, riprendeva le sue antiche sfumature mano a mano che il metallo veniva a contatto con il panno di lana imbevuto di Sidol, … ed erano appena le sei del mattino!
Era questo, un rito che si ripeteva oramai da anni, propedeutico come era alla processione del Venerdì Santo che di lì a poco avrebbe avuto inizio.
La banda musicale cittadina, di cui mio fratello faceva parte, in quell’ultima settimana aveva tenuto le prove ogni sera ed anch’io, incuriosito, mi accompagnavo a lui all’interno della sala dei concerti, in quei giorni un po’ troppo angusta per contenerci tutti.
Ascoltavo con malcelata emozione le marce funebri e, spesso, mi capitava di cambiare repentinamente umore fino a ridere a crepapelle a causa di qualche frase un po’ colorita, giammai volgare, che era naturale ascoltare ogni qualvolta il maestro interrompeva le prove per interdire una nota maldestra che senza volerlo aveva fatto capolino, proveniente dalla classe degli ottoni. Quando l’incauta nota si ostinava ad uscire fuori dalla campana dello strumento più di una volta, il giorno appresso era consuetudine leggere sullo spartito del malcapitato esecutore, accanto alla battuta incriminata, un enorme TACI !!! scritto a carattere stampatello che incuteva timore ed invitava al silenzio più assoluto.
Mentre mio fratello indossava la tradizionale divisa nera stirata con cura la sera precedente, a poche decine di metri, dall’altro lato della strada, già vestito di tutto punto, con la sua impeccabile camicia bianca, mastro Armando Barone, dopo essersi confezionata l’ennesima sigaretta con tabacco forte, appoggiato con la pancia alla ringhiera del balcone, metteva a punto il suo flicornino a cilindri, affogando questi ultimi nell’olio Singer per invitarli ad una maggiore scioltezza, prigionieri com’erano di una miriade di elastici che costituivano una personalissima taratura della corsa degli ingranaggi, per favorire, nelle sue intenzioni, un suono più vellutato ed accattivante, proprio come la solennità dell’evento richiedeva.
Di lì a qualche minuto fu possibile scorgere i due mentre risalivano insieme ’a silicata che passa dinanzi al monumento ai caduti della Grande Guerra, per raggiungere la chiesa matrice di S. Biagio, già affollata di gente.
Anch’io, nonostante la mia imperdonabile lentezza, cercai di far presto e, poco dopo, affacciato dal parapetto balaustrato del sagrato della chiesa, godevo già dello splendido panorama che nelle giornate più nitide consente di osservare il pennacchio di fumo che si eleva dalla sommità dello Stromboli.
Il tempo incerto aveva creato un po’ di agitazione tra i confratelli della Beata Vergine del Rosario, già vestiti dell’abito penitenziale, con la corona di spine sul capo in segno di una maggiore contrizione.
Molti, fra i vecchi marinai che ne facevano parte, azzardavano previsioni sull’evolversi delle condizioni atmosferiche, ma i troppi pareri discordi, alla fine, ognuno per proprio conto, cercavano conforto sul pronunciamento del colonnello Bernacca, la sera prima, in televisione.
In ogni caso, solo un cataclisma avrebbe potuto impedire lo svolgersi della processione e questo lo sapeva bene l’arciprete che, relegatosi in sacrestia, fingendo indifferenza, si guardava bene dall’avanzare ipotesi.
Mi immersi lentamente nella penombra della chiesa scossa dai canti devozionali che le donne, il cui impatto con la morte non conosce mediazioni, innalzavano dinanzi alla figura eterea di Maria Addolorata, splendida statua, la cui naturalezza dei capelli sciolti, ex voto di una fanciulla del luogo, le conferivano una solennità ancora maggiore, se mai ve ne fosse stato bisogno, rendendola creatura quasi umana, nel suo terreno dolore.
Passai in rassegna tutti i santarielli, in senso contrario a come li avevo visti da bambino, invertendo il rapporto con la morte a cui si arriva per gradi e per ognuno di essi avevo un ricordo particolare che richiamava alla mente un volto, una frase, un nome.
Il dolore cristallizzato, l’urlo trattenuto che si leggeva sulle labbra semiaperte del Cristo ligneo dall’alto della sua croce erano senza tempo, prigionieri anch’essi dell’eternità; non era un uomo che stava per esalare il suo ultimo respiro, ma un dormiente, anticipatore di un risveglio che la storia avrebbe salutato come la Pasqua della Resurrezione.
Non mi turbava la visione del sangue, di cui le sue carni erano fin troppo cosparse, ma la compostezza del corpo, nonostante gli spasmi che un’avvenuta crocifissione conferisce a tutta la persona. Elì, Elì … sembrava invocasse ancora … Padre, Padre…; poi, la voce greve dei bassi che intonavano il Miserere mi rapì.
Un vento pungente e fastidioso che male si coniugava con la primavera già inoltrata aveva squarciato le nubi, lasciando intravedere un rettangolo d’azzurro che faceva ben sperare. Solo il mare, in lontananza, per nulla intimidito dalla sacralità dell’evento, lasciava trasparire la sua minacciosità e le onde, increspandosi, innalzavano al cielo pennacchi di spuma bianchissima.
Vi fu un breve consulto tra i confratelli, interrotto bruscamente da una voce stentorea che in modo perentorio ordinava loro di dare inizio alla processione; poi, i santarielli cominciarono ad uscire dalla chiesa, accompagnati dal canto chiassoso dei fanciulli che si facevano carico di trasportare le varette loro riservate.
Sfilavano lentamente per la ripida gradinata in un crescendo di commozione; tutto era ripetitivo, oleografico, ma atteso, voluto.
Apparve, dunque, il Crocefisso, portato a spalla. Nella sua crudele maestosità, dall’alto del sagrato giganteggiava sulla folla, che sembrava ammonire; fu poi la volta del Cristo morto salutato mestamente dalle prime note che la banda musicale cittadina gli tributava.
Veniva portato a braccia da quattro confratelli e fra di essi, vestito di tutto punto, immancabilmente, c’era Ntoni ’i Munnu, sempre più curvo sotto il peso dell’età che incalzava.
Per anni aveva sgomitato con altri fedeli per quel posto in prima fila. Poter stare dietro la testa del Cristo era divenuto l’inconfessabile desiderio di tutto un anno, ed il tempo, con il suo inesorabile fluire, aveva premiato la sua tenacia perché gli altri, oramai, non c’erano più.***
Improvvisamente mi ritrovai con gli occhi pieni di lacrime che in principio una sorta di infantile pudore mi impedì di asciugare, poi, all’apparire della Vergine Addolorata la commozione aumentò e decine di candidi fazzoletti fecero la loro comparsa fra le mani dei fedeli.
Aveva ragione Enzo, si piange sull’uno per ricordare l’altro e “l’altro”, in questo caso, era mio padre, che tante volte, ancor fanciullo, aveva stretto la mia piccola mano nella sua conducendomi in processione, sobbarcandosi spesso del mio docile peso, quando, stanco, invocavo le sue braccia.
Tante volte mi aveva fatto vestire l’abito tradizionale della Confraternita di Maria SS. Addolorata, di cui noi d’ ’a Taverna facciamo parte ancora oggi, la sera del Venerdì Santo, quando, prima che i Concili Vaticani rimettessero ordine a tutta la liturgia, aveva luogo una processione che altri non era se non la continuazione ideale di quella mattutina.
Quell’anno in cui mi passò il testimone fui da solo fra migliaia di persone, ed ancora oggi, che di quel bambino non è rimasto più nulla, mi porto dietro la solitudine di quel giorno seguendo il Cristo morto con le mani in tasca per paura di stenderle nel vuoto.
Un lungo corteo, dapprima silenzioso, si allontanava dalla Chiesa Matrice verso Catocastro; poi, gli adulti cominciarono a disperdere nell’aria pungente i loro canti devozionali, diversi fra loro a seconda della varetta a cui si accompagnavano. La pietas che si avvertiva nell’ascoltare lo Stabat Mater era di una sconvolgente drammaticità: Fac me tecum plangere / Fà ch’io pianga con te… Fac me plagis vulnerari / Fà ch’io sia ferito dalle (sue) piaghe… Fac me cruce inebriari / Fà ch’io sia inebriato dalla (sua) croce… E mentre la processione proseguiva, eravamo rapiti dallo sguardo della Vergine, il cui ampio mantello nero, finemente ricamato a mano con filo di oro zecchino, liberato dalle costrizioni, offrendosi al vento, sembrava avvolgerci tutti, rendendoci invisibili alla morte.
Mano a mano che si proseguiva lungo il percorso abituale, la commozione aumentava e la folla di gente posta ai lati della strada in attesa di accodarsi al corteo processionale era divenuta oramai una moltitudine colorata di cui non era possibile tenere il conto.
Tutti erano ansiosi di rivivere gli stessi sentimenti provati negli anni precedenti e questo costituiva un particolarissimo banco di prova, perché se la riattualizzazione del lutto per la morte del Nazareno dava luogo in termini di commozione e di pàthos a ciò che si era provato negli anni trascorsi, tutto questo significava che una parte di noi stessi, probabilmente la migliore, aveva recepito ancora una volta il messaggio cristiano del trionfo della vita sulla morte, mantenendo la promessa di rinascita.
Era, infine, questo desiderio di elaborare l’incubo della morte che teneva unita l’intera comunità e che almeno in quel giorno, non ci rendeva diversi l’uno dall’altro, sviluppando, anzi, momenti di autentica socialità.
L’incenso, a contatto con le braci ardenti del braciere posto sopra una sedia dinanzi alla gghiésiella d’ ’i Furgiuele, sprigionò il suo tipico odore facendo sollevare nell’aria una nuvola di fumo sopportabile solo per alcuni istanti, ed in quella nuvola dagli intensi aromi fu fatto sostare per qualche minuto il Cristo morto con il viso rivolto verso l’uscio spalancato della piccola chiesa che lasciava intravedere, nella penombra del suo interno, i paramenti che rivestivano l’altare con i colori del lutto.
Qualcuno, con il viso solcato dalle lacrime, in cui era facile ravvisare il dolore per la recente scomparsa di un proprio caro, associando il lutto familiare alla morte del Cristo, si avvicinò e depose un fascio di rose purpuree sulla statua, baciandone i piedi.
Poi, il sussurrato salmodiare delle donne salutò il ripartire lento del corteo processionale.
Lungo il corso che apre su Piazza Cappuccini si raggiunse il massimo della partecipazione popolare, e mentre le prime varette erano state già deposte per terra per una breve sosta, le ultime dovevano ancora spuntare; si formarono così due cortei paralleli, procedenti ognuno in senso opposto all’altro, e quando lo spazio venne meno, entrambi, si fusero, divenendo un’unica, grande, fiumara umana.
I canti si rincorrevano mano a mano che le statue si incrociavano e solo l’apparire di un predicatore della grande famiglia francescana, dall’alto di un balcone, mise temporaneamente tutti a tacere.
Le sue furono parole infuocate; il frate, che per l’intero periodo quaresimale aveva girato in lungo ed in largo, affinando le armi della dialettica, dapprima lanciò qualche anatema con parole vibranti e piene di tensione morale, poi, addolcì il timbro ed infine, quando capì che la strada da percorrere era ancora lunga, come un buon padre, benedisse e salutò tutti.
Continuando a camminare lungo l’ultimo tratto della salita finale che conduceva alla Chiesa Matrice, il corteo processionale, come un grande albero a cui il vento autunnale sottrae ad una ad una le foglie, perse molti dei suoi fedeli e vi fu un calo emozionale che sorprese tutti per un ampio spazio di tempo; solo in prossimità della chiesa un velo di tristezza si riaffacciò di nuovo nell’animo dei partecipanti e, quando i santarielli stavano per risalire l’ampia scalinata, si provò un comune senso di soddisfazione per aver preso parte a quell’evento.
La sacra rappresentazione, materializzando, dapprima, l’incubo della morte, lo aveva, infine, respinto, elaborandolo. Fu allora, mentre la banda continuava a suonare, che la Vergine Addolorata, rivolta verso i fedeli, ricevette l’ultimo, affettuoso saluto. Ebbi appena il tempo di sfiorarle le vesti, poi, fu di nuovo inghiottita dalla folla, mentre i confratelli, rauchi e stanchi, le tributavano le ultime strofe dello Stabat Mater di Jacopone da Todi.
***Ntoni ’i Munnu, ora non c’è più. E’ venuto a mancare agli inizi del 2009.
di Antonio Furgiuele
(marzo 2003)